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      Malambruno. Così è.
      Farfarello. Dunque, amandoti necessariamente del maggiore amore che tu sei capace, necessariamente desideri il più che puoi la felicità propria; e non potendo mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo desiderio, che è sommo, resta che tu non possi fuggire per nessun verso di non essere infelice.
      Malambruno. Nè anco nei tempi che io proverò qualche diletto; perché nessun diletto mi farà nè felice nè pago.
      Farfarello. Nessuno veramente.
      Malambruno. E però, non uguagliando il desiderio naturale della felicità che mi sta fisso nell'animo, non sarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso è per durare, io non lascerò di essere infelice.
      Farfarello. Non lascerai: perché negli uomini e negli altri viventi la privazione della felicità, quantunque senza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempo di quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicità espressa.
      Malambruno. Tanto che dalla nascita insino alla morte, l'infelicità nostra non può cessare per ispazio, non che altro, di un solo istante.
      Farfarello. Sì: cessa, sempre che dormite senza sognare, o che vi coglie uno sfinimento o altro che v'interrompa l'uso dei sensi.
      Malambruno. Ma non mai però mentre sentiamo la nostra propria vita.
      Farfarello. Non mai.
      Malambruno. Di modo che, assolutamente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere.
      Farfarello. Se la privazione dell'infelicità è semplicemente meglio dell'infelicità.
      Malambruno. Dunque?
      Farfarello. Dunque se ti pare di darmi l'anima prima del tempo, io sono qui pronto per portarmela.


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Operette morali
di Giacomo Leopardi
pagine 308