CAPITOLO UNDECIMOMa in fine, che è questo ricorrere che facciamo alla posterità? Certo la natura dell'immaginazione umana porta che si faccia dei posteri maggior concetto e migliore, che non si fa dei presenti, né dei passati eziandio; solo perché degli uomini che ancora non sono, non possiamo avere alcuna contezza, né per pratica né per fama. Ma riguardando alla ragione, e non all'immaginazione, crediamo noi che in effetto quelli che verranno, abbiano a essere migliori dei presenti? Io credo piuttosto il contrario, ed ho per veridico il proverbio, che il mondo invecchia peggiorando. Miglior condizione mi parrebbe quella degli uomini egregi, se potessero appellare ai passati, i quali, a dire di Cicerone,(7) non furono inferiori di numero a quello che saranno i posteri, e di virtù furono superiori assai. Ma certo il più valoroso uomo di questo secolo non riceverà dagli antichi alcuna lode. Concedasi che i futuri, in quanto saranno liberi dall'emulazione, dall'invidia, dall'amore e dall'odio, non già tra se stessi, ma verso noi, sieno per essere più diritti estimatori delle cose nostre, che non sono i contemporanei. Forse anco per gli altri rispetti saranno migliori giudici? Pensiamo noi, per dir solamente di quello che tocca agli studi, che i posteri sieno per avere un maggior numero di poeti eccellenti, di scrittori ottimi, di filosofi veri e profondi? poiché si è veduto che questi soli possono fare degna stima dei loro simili. Ovvero, che il giudizio di questi avrà maggiore efficacia nella moltitudine di allora, che non ha quello dei nostri nella presente?
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Cicerone
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