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      In ultimo mi resta a dire, che io desidero quanto voi, e quanto qualunque altro, il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo; non mi so dilettare e pascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo; e la mia disperazione, per essere intera, e continua, e fondata in un giudizio fermo e in una certezza, non mi lascia luogo a sogni e immaginazioni liete circa il futuro, né animo d'intraprendere cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto. E ben sapete che l'uomo non si dispone a tentare quel che egli sa o crede non dovergli succedere, e quando vi si disponga, opera di mala voglia e con poca forza; e che scrivendo in modo diverso o contrario all'opinione propria, se questa fosse anco falsa, non si fa mai cosa degna di considerazione.
      Timandro. Ma bisogna ben riformare il giudizio proprio quando sia diverso dal vero; come è il vostro.
      Eleandro. Io giudico quanto a me di essere infelice, e in questo so che non m'inganno. Se gli altri non sono, me ne congratulo seco loro con tutta l'anima. Io sono anche sicuro di non liberarmi dall'infelicità, prima che io muoia. Se gli altri hanno diversa speranza di se, me ne rallegro similmente.
      Timandro. Tutti siamo infelici, e tutti sono stati: e credo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenza sia delle più nuove. Ma la condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come è già migliorata indicibilmente da quello che fu. Voi mostrate non ricordarvi, o non volervi ricordare, che l'uomo è perfettibile.


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Operette morali
di Giacomo Leopardi
pagine 308