E massimamente la compassione è incompatibile col suo stato quando egli o è tutto pieno della pietà di se stesso, o prova un'esaltazione di contento che gli dipinge a festa tutti gli oggetti e gli fa considerar la sventura come un'illusione, per lo meno odiarla come cosa alienissima da quello che lo anima e lo riempie tutto in quel punto. Solamente gli stati di mezzo, sono opportuni all'interesse per le cose altrui, o anche un certo stato di entusiasmo senza origine e senza scopo reale, che gli faccia abbracciar con piacere l'occasione di operare dirittamente, di beneficare, di sostituir l'azione all'inazione, di dare un corpo ai suoi sentimenti, e di rivolgere alla realtà quell'impeto di entusiasmo virtuoso, magnanimo generoso ec. che si aggirava intorno all'astratto e all'indefinito. Ma quando il nostro animo è già occupato dalla realtà, ossia da quell'apparenza che noi riguardiamo come realtà, il rivolgerlo ad un altro scopo, è impresa difficilissima e quello è il tempo più inopportuno di sollecitar l'interesse altrui per la vostra causa, quand'esso è già tutto per la propria, e lo staccarnelo riuscirebbe penosissimo al supplicato. Molto più se la gioia sia di quelle rare che occorrono nella vita pochissime volte, e che ci pongono quasi in uno stato di pazzia, sarebbe da stolto il farsi allora avanti a quel tale, ed esponendogli con qualsivoglia eloquenza i propri bisogni e le proprie miserie, sperare di distorlo dal pensiero ch'è padrone dell'animo suo, e che gli è sì caro, e quel ch'è più, condurlo ad operare o a risolvere efficacemente d'operare per un fine alieno da quel pensiero, al quale egli è così intento anche in udirvi, che appena vi ascolta, e se vi ascolta, cerca di abbreviare il discorso, di ridur tutto in compendio, (per poi dimenticarlo affatto) ed ogni suo desiderio è rivolto al momento in cui avrete finito, e lo lascerete pascere di quel pensiero che lo signoreggia, ed anche parlarvene, e rivolgere immediatamente la [99]conversazione sopra quel soggetto.
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