E di più erano necessarie. Così dunque la lingua latina si pose in grado di discorrer delle [749]cose, e di essere scritta, ma vi si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti regolati e ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina, affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove, disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno, abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta, e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina, rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva. Cicerone ne aveva usato [750]da suo pari con discrezione e finissimo giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era possibile in quella strettezza, in quella tanta copia dinuove cose, accompagnate da parole straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti: parte perch'essendo (com'è oggi relativamente al francese) molto più facile il tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota, le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava senza studio, e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non erano così periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi di una tal lingua, come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s'ella avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il bisognevole, [751]davan sacco alla lingua greca che l'aveva tutto alla mano.
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