veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè di cognizioni (come, e più di quello che si dice della China, la cui lingua in tal caso potrà essere immobile): e di più che sia in tutto e per tutto conforme alla vita e alle condizioni de' nostri antichi, e di que' secoli dopo i quali non vogliono che sia più lecita la novità delle parole.
E infatti che differenza troveremo fra la lingua italiana viva, e le morte, ammesso questo pazzo principio? Che libertà che facoltà avremo noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che nell'adoprare la greca e latina che sono antiche ed altrui? e le cui fonti sono disseccate e chiuse da gran tempo, restando solo quel tanto ch'elle versarono mentre furono aperte, e quelle lingue vissero. Anzi io tengo per fermo che quegli scrittori italiani i quali nel cinquecento maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi dubbio se ella fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno superstiziosi di quello che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua nostra. E noi medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta Europa) derivando, come facciamo spessissimo, [765]dal greco le parole che ci occorrono per li nostri usi presenti, e per novità di cose ignotissime ai parlatori di quella lingua, non formiamo voci parimente ignote all'antica lingua greca? Ci facciamo scrupolo se non sono registrate nel Lessico, o se non hanno per se l'autorità degli antichi scrittori? Non innuoviamo noi in una lingua morta, stranierissima, e al tutto fuori d'ogni nostro diritto?
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