Ed è che nella poesia latina se una parola finita per vocale è seguita da un'altra che incominci per vocale, l'ultima vocale della parola precedente è mangiata dalla seguente, si perde, e non si conta fra le sillabe del verso. All'opposto nella poesia greca non è mangiata, nè si perde o altera in verun modo, e si conta per sillaba, come fosse seguita da consonante; fuorchè se il poeta non la toglie via del tutto, surrogandole un apostrofo. Così dico dei dittonghi nello stesso caso, parimente elisi nella poesia latina, e intatti nella greca.
Parimente la lingua italiana antica, quella lingua de' trecentisti, che quanto alla dolcezza e leggiadria non ha pari in nessun altro secolo, non [1159]solo non isfugge il concorso delle vocali, ma lo ama. Proprietà che la nostra lingua è venuta perdendo appoco appoco, quanto più s'è allontanata dalla condizione primitiva; e che oggi non solo dal massimo numero degli scrittori cioè da quelli di poca vaglia, ma da più eleganti, è per lo più sfuggita come vizio, e come causa di brutto e duro suono, in luogo di dolcezza o di grazia. Massimamente però gli scrittori più triviali (dico quanto alla lingua e lo stile), o affettati o no, di questo e de' due ultimi secoli, par ch'abbiano una somma paura che due o più vocali s'incontrino, e storcono le parole in mille maniere per evitare questo disastro.
E così stimo che accada a tutte le lingue in ragione del tempo, dell'indole sua, e del ripulimento di esse lingue. E accadde, io penso, anche alla lingua greca.
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