Le quali se, p.e. sono fortemente morali, per quanto conoscano, e sentano e vedano, non si persuaderanno mai intimamente che la moralità non esista più, e [1573]sia del tutto esclusa dai motivi determinanti l'animo umano. Lo dirà ancora, lo sosterrà, in qualche accesso di misantropia arriverà a crederlo, ma come si crede momentaneamente a una viva e conosciuta illusione, e non se ne persuaderà mai nel fondo dell'intelletto. (Lascio i giovani i quali essendo ordinariamente virtuosi, non si convincono mai prima dell'esperienza, che la virtù sia nemmeno rara.) Così viceversa ec. ec. ec. Esempio, mio padre.
(27. Agosto. 1821.)
Dice Cicerone (il luogo lo cita, se ben mi ricordo, il Mai, prefazione alla versione d'Isocrate, de Permutatione) che gli uomini di gusto nell'eloquenza non si appagano mai pienamente nè delle loro opere nè delle altrui, e che la mente loro semper divinum aliquid atque infinitum desiderat, a cui le forze dell'eloquenza non arrivano. Questo detto è notabilissimo riguardo all'arte, alla critica, al gusto.
Ma ora lo considero in quanto ha relazione a quel perpetuo desiderio e scontentezza che lasciano, siccome tutti i piaceri, [1574]così quelli che derivano dalla lettura, e da qualunque genere di studio; ed in quanto si può riferire a quella inclinazione e spasimo dell'uomo verso l'infinito, che gli antichi, anche filosofi, poche volte e confusamente esprimono, perchè le loro sensazioni essendo tanto più vaste e più forti, le loro idee tanto meno limitate e definite dalla scienza, la loro vita tanto più vitale ed attiva, e quindi tanto maggiori le distrazioni de' desiderii, che la detta inclinazione e desiderio non potevano sentirlo in un modo così chiaro e definito come noi lo sentiamo.
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Lascio Cicerone Isocrate Permutatione
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