Convengo che quando in luogo di una parola greca ch'è sempre straniera per noi, si possa far uso di una parola italiana o nuova o nuovamente applicata, che perfettamente esprima la nuova cosa, questa si debba preferire a quella; (purchè la greca o altra qualunque non sia universalmente prevalsa in modo che sia immedesimata coll'idea, e non si possa toglier quella senza distruggere o confondere o alterar questa; giacchè in tal caso una diversa parola, per nazionale, espressiva, propria, esatta, precisa ch'ella fosse, non esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo un lungo uso ec. e fratanto non saremmo intesi.) Ma fuori di [1845]questo caso che di rarissimo si verifica, perchè l'Italia sola vorrà rinunziare, primo al costume generale di questo e d'altri secoli e dell'Europa, che avrebbe diritto di farsi adottare quando anche non fosse necessario nè buono; secondo al benefizio universale di quella maravigliosa lingua, che benchè morta da tanti secoli, somministra perpetuamente il bisognevole a denominare e significare appuntino tutto ciò che vive, e tutto ciò che nasce o si scuopre o nuovamente si osserva nel mondo?
(5. Ott. 1821.)
Moltissime parole si trovano, comuni a più lingue, o perchè derivate da questa a quella, ed immedesimate con lei, o perchè venute da origine comune, le quali parole in una lingua sono eleganti, in un'altra no; in una affatto nobili anzi sublimi, in un'altra affatto pedestri. Così dico delle frasi ec. Unica ragione è la differenza dell'uso, e delle assuefazioni.
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