Quelle ricchezze alle quali io dico che la lingua italiana non ha mai rinunziato, sono le ricchezze sue più o meno disusate, che sono infinite e bellissime, e ponno esserle ancora d'infinito uso; ma non propriamente le voci e locuzioni antiche, cioè quelle che oggi o non si ponno facilmente e comunemente intendere, o comunque intese non ponno aver faccia di naturali, e spontanee, e non pescate nelle Biblioteche de' classici. A queste l'Italia come tutte le altre nazioni nè più nè meno, intende di avere rinunziato; e i soli pedanti [1888]lo negano, o non riconoscono per buona questa rinunzia, e le protestano contro, e non vi si conformano, nè l'ammettono.
Come poi la lingua italiana abbia e possa avere, a differenza della francese, infinite ricchezze, che se ben disusate, ed antiche di fatto, non sono antiche di valore, di forma, di conio, lo verrò spiegando.
Primieramente la lingua italiana non ha mai sofferto, come la francese, una riforma, venuta da un solo fonte ed autorità, cioè da un'Accademia, e riconosciuta dalla nazione, la quale la ristringesse alle sole parole comunemente usitate al tempo della riforma, o che poi fossero per venire in uso, togliendole affatto la libertà di adoperare quanto di buono d'intelligibile ed inaffettato si potesse trovare nel capitale della lingua non più solito ad usarsi, ma usato dagli antichi. Della quale specie moltissimo avrebbe allora avuto la lingua francese da poter salvare. Non si è mai tolta fra noi ogni autorità agli antichi, serbandola solamente ai moderni, o ristringendola [1889]e terminandola in un solo corpo, e nell'epoca di esso.
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