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      (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
     
      [2525]Alla p.2516. marg. fine - e sempre scrisse (il Caro) nella propria lingua del suo secolo, non del trecento, e della sua nazione, non di sola Firenze. Or vedasi nell'esempio del Caro non Fiorentino, come era bella e graziosa questa lingua nazionale del cinquecento, ch'allora si disprezzava, e diceva il Salviati che bisognava scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè più nè meno di quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è che nessun Fiorentino nè del trecento nè del 500 nè d'altro secolo scrisse mai così leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro Marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto le non istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche oggidì, letto o bene imitato, è fresco e lontanissimo dall'affettazione la più menoma, come s'oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse, ebbe poco tempo di studiarlo, lasciando star le lettere, familiari, ch'egli scriveva anzi di malissima voglia, come dice [2526]spessissimo, e dice ancora: E delle mie (lettere) private io n'ho fatto molto poche che mi sia messo per farle (cioè con istudio), e di pochissime ho tenuta copia (lett. 180. vol.2. al Varchi.) Dal che si vede che quello stile e quella lingua gli erano naturali, e sue proprie, non altrui, cioè proprie del suo secolo e della sua nazione, benchè da lui modificate secondo il suo gusto, e benchè si professi molto obbligato nella lingua a Firenze, scrivendo al Fiorentino Salviati.


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Zibaldone. Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
Parte Prima
di Giacomo Leopardi
pagine 1913

   





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