(10. Giugno 1823.)
Chi vuol manifestamente vedere la differenza de' tempi d'Omero da quelli di Virgilio, quanto ai costumi, e alla civilizzazione, e alle opinioni che [2760]s'avevano intorno alla virtù e all'eroismo, siccome anche quanto ai rapporti scambievoli delle nazioni, ai diritti e al modo della guerra, alle relazioni del nimico col nimico; e chi vuol notare la totale diversità che passa tra il carattere e l'idea della virtù eroica che si formarono questi due poeti, e che l'uno espresse in Achille e l'altro in Enea, consideri quel luogo dell'Eneide (X. 521-36.) dov'Enea fattosi sopra Magone che gittandosi in terra e abbracciandogli le ginocchia, lo supplica miserabilmente di lasciarlo in vita e di farlo cattivo, risponde, che morto Pallante, non ha più luogo co' Rutuli alcuna misericordia nè alcun commercio di guerra, e spietatamente pigliandolo per la celata, gl'immerge la spada dietro al collo per insino all'elsa. Questa scena e questo pensiero è tolto di peso da Omero, il quale introduce Menelao sul punto di lasciarsi commuovere da simili prieghi, ripreso da Agamennone, che senza alcuna pietà uccide il troiano già vinto e supplichevole.
[2761]Ma chiunque bene osservi vedrà che siccome questa scena riesce naturalissima e conveniente in Omero, così riesce forzatissima e fuor di luogo in Virgilio, e ripugna all'idea che il lettore si era formato sì del carattere di Enea, sì della virtù eroica generalmente, dietro alle tracce di quel poema: anzi, dirò anche, ripugna all'idea che se n'era formata lo stesso Virgilio.
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