E intendo [3540]di quel danno ch'è subbietto di ciò che propriamente si chiama timore, e timidità, viltà ec. non di quello ch'è materia solamente di afflizione, dispiacere, cordoglio, ec. o dubbiosamente o certamente aspettato ch'ei sia (nel qual caso questo dispiacere suole altresì chiamarsi timore), o ricevuto o presente ec.
Il passato discorso spetta ai pericoli (o danni ec.) inevitabili e non dipendenti dalla volontà de' rispettivi individui. Il coraggio d'affrontare o cercare i pericoli volontariamente e potendo a meno, procede per lo più, e principalmente da natura o abito d'irriflessione o di non riflettere profondamente; ovvero dal non curare il pericolo, cioè non considerar come male, o come assai piccolo e spregevol male, il danno che ne potrebbe seguire, (ancorchè tenuto generalmente grandissimo o sommo dagli uomini), il che viene a esser quanto non riguardare il pericolo come pericolo, o dal non credere che questo danno ne possa o debba facilmente o in niun modo seguire, il che torna il medesimo. Questo coraggio non ha che far colla idea del perfetto coraggio da noi proposta, il quale impedisce di temere il pericolo o il danno 1° riguardato com'effettivo danno e pericolo, 2° perfettamente conosciuto, compreso e considerato. Queste condizioni sono essenziali al perfetto, anzi al vero e proprio coraggio; e quel che n'è senza, o non è propriamente coraggio, o imperfetto ec.
(26-7. Sett. 1823.)
[3541]Ho discorso altrove del verbo periclitor mostrando ch'egli è continuativo di un antico periculor, fatto dal participio di questo, cioè da periculatus contratto in periclatus come periculum in periclum, e mutata l'a in i secondo la solita regola, come in mussito da mussatus.
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