Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore o avversione, nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita [4278]e l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all'immortalità dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch'è morto, non sia più.
Ma se crediamo questo, perchè lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è più? - Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest'ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell'essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.
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