Memorie della mia vita
, stila il 1° dicembre 1828, assiso nell’estraniante intervallo d’un ricordo: "Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all’esterna"...
A questo punto, l’unica, omeopatica cura, non poteva essere che la professione, oseremmo dire etica, di piena, volitiva umanità: "La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo", confesserà al suo diario nello stesso 1828, "appoco appoco fu causa di spegnere in me ogni quasi desiderio. Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio"... E in un più sereno passo dello Zibaldone (4244), Giacomo si vota e si affida al voltairiano Tempo consolatore: "Quando l’animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile"... Virile, consumato stoicismo. E ne aveva, il giovane conte Leopardi, di amarezze da vincere, di ugge e stizze da riscattare... De Sanctis, insieme con devoto e offeso compatimento intellettuale, prova a mettersi nei panni di questo genio universale che "sospirò invano un piccolo posto a Roma per intercessione del Niebhur, desiderò un tenue sussidio dallo Stella in ristoro delle sue fatiche, e dové annoiarsi fieramente con discepoli dappoco, non capaci d’intenderlo"...
Paradossalmente, proprio questa frattura, questa delusione assoluta (perfino dogmatica), gli facilita e gli detta un ispirato, struggente riscatto poetico.
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