Avanti d’addormentarmi ho previsto con gran dispiacere che il sonno non sarebbe stato così torbido come le notti passate, e così è successo, ed ora tutti quegli difetti sono debolissimi, prima per la solita forza del tempo, massimamente in me, poi perché il comporre con grandissima avidità quei versi, oltre che m’ha e riconciliato un poco colla gloria, e sfruttatomi il cuore, l’avere poi con ogni industria ad ogni poco incitati e richiamati quegli affetti e quelle immagini, ha fatto che questi non essendo più così spontanei si sieno infievoliti. Ma perché essi mi vadano abbandonando, non me ne scema il voto del cuore, anzi più tosto mi cresce, ed io resto inclinato alla malinconia, amico del silenzio e della meditazione, e alieno dai piaceri che tutti mi paiono più vili assai di quello c’ho perduto. E insomma io mi studio di rattenere quanto posso quei moti cari e dolorosi che se ne fuggono: per li quali mi pare che i pensieri mi si sieno più tosto ingranditi, e l’animo fatto alquanto più alto e nobile dell’usato, e il cuore più aperto alle passioni. Non però in nessun modo all’amore (se non solamente verso il suo oggetto), che il fastidio d’ogni altra bellezza umana è, posso dire, dei moti descritti di sopra quello che più vivo e saldo mi si mantiene nella mente. E una delle cagioni di ciò (oltre l’essere ora il mio cuore troppo signoreggiato da un sembiante), come anche di tutta questa mia crisi, è, come poi pensando m’è parso di poter affermare, l’impero che, se non fallo, per natura mia, hanno e debbono avere nella mia vita sopra di me due cose.
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