Era un tempo che la malvagità umana e le sciagure della virtù mi movevano a sdegno, e il mio dolore nasceva dalla considerazione della scelleraggine. Ma ora io piango l’infelicità degli schiavi e de’ tiranni, degli oppressi e degli oppressori, de’ buoni e de’ cattivi, e nella mia tristezza non è più scintilla d’ira, e questa vita non mi par più degna d’esser contesa. E molto meno ho forza di conservar mal animo contro gli sciocchi e gl’ignoranti coi quali anzi proccuro di confondermi; e perché l’andamento e le usanze e gli avvenimenti e i luoghi di questa mia vita sono ancora infantili, io tengo afferrati con ambe le mani questi ultimi avanzi e queste ombre di quel benedetto e beato tempo, dov’io sperava e sognava la felicità, e sperando e sognando la godeva, ed è passato né tornerà mai più, certo mai più; vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza è finito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sentono; sicché non vivono fino alla morte se non quei molti che restano fanciulli tutta la vita. Mio caro amico, sola persona ch’io veda in questo formidabile deserto del mondo, io già sento d’esser morto, e quantunque mi sia sempre stimato buono a qualche cosa non ordinaria, non ho mai creduto che la fortuna mi avrebbe lasciato esser nulla. Sicché non ti affannare per me, ché dove manca la speranza non resta più luogo all’inquietudine, ma piuttosto amami tranquillamente come non destinato a veruna cosa, anzi certo d’esser già vissuto. Ed io ti amero con tutto quel calore che avanza a quest’anima assiderata e abbrividita.
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