Analizzando quel ch’io provava in tali occorrenze, ho trovato che quel che spegneva in me immancabilmente ogni moto, era un’evitabile occhiata che io allora, confusamente e senza neppure accorgermene, dava a me stesso. E che, pur confusamente, io diceva: che fa, che importa a me questo (la bella natura, una poesia ch’io leggessi, i mali altrui), che non sono nulla, che non esisto al mondo? E ciò terminava tutto, e mi rendeva così orribilmente apatico com’io sono stato per tanto tempo. Quindi si vede chiaramente che il fondamento essenziale e necessario della compassione, anche in apparenza la più pura, la più rimota da ogni relazione al proprio stato, passato o presente, e da ogni confronto con esso, è sempre il se stesso. E certamente senza il sentimento e la coscienza di un suo proprio essere e valere qualche cosa al mondo, è impossibile provar mai compassione; anche escluso affatto ogni pensiero o senso di alcuna propria disgrazia speciale, nel qual caso la cosa è notata, ma è ben distinta da ciò ch’io dico. E al detto sentimento e coscienza, come a suo fondamento essenziale, la compassione si riferisce dirittamente sempre: quantunque il compassionante non se n’accorga, e sia necessaria una intima e difficile osservazione per iscoprirlo. Quel che si dice dei deboli, che non sono compassionevoli, cade sotto questa mia osservazione, ma essa è più generale, e spiega la cosa diversamente. Ciò che dico del sentimento di se stesso, e della considerazione e stima propria, vale ancora per la speranza: chi nulla spera, non sente, e non compatisce; anch’egli dice: che importa a me la vita?
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