Ben sapete che queste medesime carte io non ho potute leggere, e per emendarle m’è convenuto servirmi degli occhi e della mano d’altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi: e la compagnia vostra, che m’è in luogo degli studi, e in luogo d’ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant’io vorrei, e s’io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in un luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L’amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi durerà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio. Il vostro Leopardi.
NOTE
* Inviate all’amico carlo Pepoli, da Bologna, nel 1826.
(1) Questi cognomi tra parentesi appartengono a persone frequentate da Leopardi nella sua giovinezza a Recanati.
(2) Gertrude Cassi in Lazzari.
(3) Tante allusioni sono incomprensibili in quanto, appunti presi solo per sé. Carlo e Pietruccio sono i fratelli; Paolina la sorella. D.Vincenzo (Diotallevi) il precettore. Teresa (Fattorini, la figlia del Cocchiere, gli ispirò forse A Silvia.
(4) Opera di Ragnault-Warin sulla famiglia di Luigi XVI
(5) Periodico che A.F.Stella stampava a Milano
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