Se avrò ancora un giorno d'ozio nel tempo che mi rimane da vivere, lo consacrerò a un lavoro accademico per dimostrare che i proci sapevano perfettamente ciò che faceva Penelope, fingevano nondimeno di ignorarlo per tirare avanti allegramente.
Se Penelope avesse avuto finita la tela un mese dopo di averla incominciata e avesse scelto il nuovo sposo, tutti gli altri avrebbero dovuto andarsene e sarebbe stata finita la festa. Gli arrosti fumanti, i vini generosi, i canti, i balli, i giuochi, quella bella vita sfaccendata a spese d'altri avrebbe cessato per tutti, meno che per uno. Anche quell'uno, il felice prescelto, diventando marito e re, avrebbe dovuto occuparsi un poco del governo della casa e dell'isola, e la spensieratezza gaudente avrebbe dovuto cedere il posto a non poche cure. Meglio adunque valeva continuare a tenere l'affare sospeso, pur fingendosi tutti smaniosi di arrivare a una conclusione.
Esposi un giorno a Giosuè Carducci queste mie vedute su tale importantissima parte dell'«Odissea»; egli mi disse che erano nuove ed ebbe la bontà d'incoraggiarmi.
Ne ho fatto qui ora questo breve cenno per mettere altri sulla traccia nel caso probabile che io non possa dar corpo al mio divisamento, e perché i proci, Penelope, Itaca, mi ritornano nella memoria pensando a ciò che Omero riferisce del vecchio cane di Ulisse, Argo, il quale rivede il suo amato padrone, travestito da mendicante dopo vent'anni di assenza, lo riconosce, e muore di gioia.
Riporto, come ho fatto fin qui, i versi della traduzione del Pindemonte.
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I cani
di Michele Lessona
pagine 128 |
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