Molti ora sono amaramente pentiti della strada in cui si sono buttati, sovra tutto i giovani forniti di ingegno.
Un avvocatino laureato di fresco nel 1859 credè di aver trovato una grande fortuna entrando di primo acchito in ufficio con mille e cinquecento o due mila lire. Ora son presto passati dieci anni e ne ha tremila e cinquecento; e vede i suoi compagni di laurea, quegli stessi che non lo superavano nè per ingegno nè per studio, guadagnarsi coll'esercizio della professione dieci o quindici mila lire all'anno, liberi e contenti, colla speranza di beccarne venticinque o trentamila fra non molto. Il giovane avvocato ripensa malinconicamente che avrebbe potuto egli pure fare altrettanto, e trova con ragione misero il suo stato presente e avvenire. E questo pensiero lo mette di mala voglia, lo fa brontolone, ingiusto col governo stesso, al quale imputa la sua rovina, perchè non ha il coraggio d'imputarla, come dovrebbe, a se stesso.
Ma non potrebbe, soggiungerà forse taluno, dare un calcio risolutamente all'impiego e ricominciare una libera professione? Non ha che trent'anni, ed oggi si fa così presto!
Chi così la pensasse, darebbe a vedere che non sa cosa voglia dire per un uomo essere stato dieci anni impiegato. Chi per suo malanno c'è stato tanto, ha perduto ogni vigore, ha preso gusto a quel poco di faccenda quotidiana che non è fatica, si è avvezzato ad aspettare con gioia l'ora delle quattro per non aver più da pensare a nulla fino al giorno appresso, ha perduto l'uso delle occupazioni mentali poderose, delle lunghe ed intense meditazioni, del fermo e gagliardo volere.
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