Avvezzo alla sua vita giornaliera, non sa cercare in sè stesso le speranze ed i miglioramenti del suo avvenire; avvezzo ad aspettarli da qualche cosa che è fuori di sè, perdette ogni elasticità delle proprie forze, e
«Là dove cadde, immobileGiace in sua lenta mole».
Questo stato miserevole che tien l'uomo inerte e scontento ingenera una gran plaga, un morbo, direi, gentilizio, perchè l'abbiamo ereditato dai nostri padri, un luogo comune dei rètori, una ipocrisia dei filosofi, una fata morgana de' moralisti, una menzogna di tutti, il disprezzo delle ricchezze.
Ci sono due vie per giungere alla ricchezza, una buona, l'altra cattiva. È superfluo discorrere di questa, perchè tutti sentono che la ricchezza male acquistata non fa felice chi la possiede: è grande e notissima verità, che non può aver l'animo quieto chi ha dentro il cruccio delle sue male opere passate, e che la prima condizione di felicità è l'interna contentezza dell'animo: il ricco di mali guadagni non è contento, e se può far invidia a chi se ne sta alla prima buccia delle cose, fa pietà a chi sa penetrarne il midollo.
Grandissimo per contrario si è il bene che apporta la ricchezza onestamente procacciata e conquistata. Nel procacciarla, ti appaga quel nobile aspirare coll'assiduo lavoro ad un fine utile insieme ed onesto; l'ansia della mente che si travaglia nel colorire un suo vagheggiato disegno, sta salda a considerarlo per tutti i versi, a cercarne i lati deboli, a correggerlo, a migliorarlo; poi i primi saggi per mandarlo ad effetto, la difficoltà, gli ostacoli, la necessità talora di rifarsi da capo, d'abbandonare la prima via per seguirne un'altra, i disinganni, gli sconforti, il prostrarsi e il risorgere dello spirito: poi i primi buoni effetti, le nuove difficoltà, le nuove vittorie, la riuscita che dà tanta consolazione, e tanta lena e tanto coraggio ad imprendere nuove utili cose.
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