E però quando vide che le opere di questi grandi erano tutt'altro che nette delle scorrezioni, degli errori e degli orrori che valevano a lui i più solenni rabbuffi del Padre Mattei, indovinò, intese, e prese il suo partito.
In quel tempo avea studiato pure il francese e lo spagnuolo, letto molto, e frequentato persone istruite di cui apprezzava l'ingegno.
E i biografi, i giornalisti, i critici, hanno detto, e le turbe degli scrittorelli hanno ripetuto, che nell'infanzia e nella gioventù Rossini fu sempre uno sfaccendato, che suo padre per farlo imparare a leggere e scrivere dovette adoperare la frusta, e che non ebbe altro merito al mondo, in tutto quello che ha fatto, se non di essere nato col genio della musica dentro al cranio.
Quando poi dopo i trionfi più splendidi e gli applausi di tutto il mondo, il Rossini in età di trentasette anni chiuse la sua carriera teatrale, e non venne più fuori se non che raramente a farsi vivo con qualche lampo luminosissimo (come fu lo Stabat Mater), i critici, i biografi, i giornalisti, gli scrittorelli che non potevano spiegare il silenzio di quell'uomo che, secondo loro, non metteva più fatica a dettare una opera di quello che ci metta un usignuolo a fare un gorgheggio, vennero a dire che Rossini era avaro, che trovava meglio il suo tornaconto in non so quali traffici, ed altre simili insinuazioni. Poi lo dissero anche duro di cuore, freddo verso l'arte, avverso ai colleghi, disdegnoso, ironico, egoista, di nessuna cosa tanto curante quanto dei buoni piatti della sua cucina.
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