Il Picchi pratico del mestiere, e avvezzo forse a veder ripetere volta per volta uno scoraggiamento di simil natura ne' giovani apprendisti che spesso gli capitavano nell'officina, combattè nell'animo del Marchi l'avvilimento incipiente; e tanto più vivamente lo combattè, quanto più aveva creduto riscontrare nel giovinetto lucchese una indole buona, una natura onesta, ed una intelligenza poco comune. Certo i principii erano meschini, le difficoltà enormi, i giorni lunghi e penosi, ma non si giunge a respirare l'aura balsamica e salubre de' colli senza affaticarsi per l'erta spinosa, nè uomo si levò mai in fama e in agiatezza senza soffrire e faticare, nè si cantò mai l'inno della vittoria senza essersi coperti della polvere del combattimento. Chi fugge, vigliacco soldato, dalla battaglia della vita, chi aspetta dal caso ristoro alle sue pene, chi non ardisce, non opera, non lavora e si sta colle mani alla cintola nell'ignavia codarda, incolpi sè stesso de' mali che lo angustiano e della miseria che lo circonda. Tali le parole del maestro allo sconfortato discepolo.
Ma vedendo che l'altro insisteva fino alle lacrime, il Picchi, per indurlo a mutar partito, gli promise di assegnargli due lire al giorno, a condizione che rimanesse con lui almeno tre anni e mezzo. Questa offerta generosa, di cui non si conosceva esempio fino a quel giorno a favore di un apprendista quindicenne che appena esordiva, aprì l'animo del Marchi a serie riflessioni, e più di tutto alla riconoscenza verso il proprio maestro, onde si quetò poco a poco, non negò il suo assenso al contratto, e si propose di servire da quel momento il suo benefattore con tutto lo zelo e l'abilità di cui si sentiva capace.
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