Amico delle teste calde, era notato come pericoloso, epperciò tenuto d'occhio continuamente.
Gli effetti di coteste attenzioni poliziesche gli piombarono addosso nelle vicende politiche degli anni 1821-22 e lo costrinsero ad esulare dal paese natìo e dall'Italia, per sottrarsi al flagello del Tribunale Statario straordinario, istituito in Rubiera per giudicare sommariamente ed in unica istanza dei delitti politici, dal quale egli fu pure condannato in contumacia, con sentenza del 6 ottobre 1823, confermata da Francesco IV, alla pena capitale ed alla confisca dei beni. Ma quella sentenza non valse ad avvilire il forte animo del Panizzi, il quale, mosso da carità del natìo luogo e da nobile sdegno, ad eternare la memoria di quei crudeli giudizi dettò uno scritto Dei Processi e delle Sentenze contro gli imputati di Lesa-Maestà e di aderenza alle Sètte proscritte negli Stati di Modena, che, pubblicato nel 1823, colla data di Madrid, fece gran rumore per la sua importanza politica. Le ultime parole onde chiudeva il suo libro, erano ad un tempo un eccitamento agli Italiani a non disperare della libertà e dell'indipendenza e un vaticinio sulle sorti future della patria: «Ohi se l'Italia (egli scriveva) alzasse il neghittoso capo!... Ma lo alzerà; ché di tanto ne assicurano l'universale amor di patria ed il generoso ardore per l'indipendenza, frutti dei lumi e dei progressi dell'incivilimento. Stiano sicuri gli Italiani: la liberazione non ne può esser dubbia, checchè si faccia per costringerli a retrocedere verso la servitù». I vaticini del Panizzi si compirono, perchè l'Italia unanime ebbe fede nei suoi destini, e per combattere le ultime battaglie della indipendenza e della libertà della patria schierò tutti i suoi figli sotto la bandiera dell'unità.
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