Rannuvolato sovente il cielo, gelato il vento dalla montagna, ghiacciate buona parte dell'anno le strade, e biancheggianti di neve a perdita di vista le sterminate pianure... - Questa non è Italia, esclamavano, è un lembo staccato di Siberia, una oasi al rovescio, un tratto di deserto nel giardino d'Europa, un'isola di ghiaccio in un oceano di fiori, una orda di barbari fra liete genti e gentili...
Fra queste brume, fra queste selve, fra questi geli, ardeva la sacra fiamma. Emanuele Filiberto, fortissimo uomo, gran principe, meraviglia di valore, di senno, di energico volere, di operosità tenace, di indomabile costanza, foggiò questo popolo gagliardo come foggia il bronzo il fonditore.
Guerre lontane e vicine, pestilenze, flagelli nelle campagne, grandine, morìa negli animali, carestie spaventose, miserie di ogni sorta venivano a piombare sul piccolo paese, ma non riuscivano a vincere la forte tempra delle genti.
Il Re diceva una parola al suo popolo, e come per incanto scaturivano uomini, danari, armi: le donne abbracciavano i loro cari, i bimbi guardavano attoniti: e quei forti partivano al grido di Viva il Re. Ogni uomo era soldato. Soldato nel vero ed alto significato del vocabolo: soldato per operare senza discutere, per obbedire senza parlare, per soffrire senza gemere, per morire senza lagnarsi. Soldato per andare dove e quando lo chiamava il dovere, e tornato dalla guerra ripigliare il suo lavoro dei campi, raccontando al focolare domestico nelle veglie invernali ai nepotini intenti le varie vicende delle lunghe guerre e i costumi delle genti lontane, e facendoli saltellare sulle ginocchia al grido di Viva il Re, grido col primo balbettare loro insegnato.
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