E nel parlare e nello scrivere in Italia constata che, "per non dare nello strano, bisogna tenersi lontano dal naturale"; e ciò per "non saper come fare per dire una cosa che si dice ogni momento".
Son queste tutte, in vero, delle trovate più paradossali in apparenza che non in realtà, e che possono parere tali solo all'uomo volgare. Ma però egli si piaceva troppo in altre sentenze, peggio che paradossali, solo basate sulla forma, sul suono, sul contrasto dell'espressione - come quando pretendeva la moda una libertà portata dal Cristianesimo, che, viceversa, perpetua, perfino nelle cocolle del frate, la veste delle plebi Romane; e quando parla del vezzo del pubblico, il quale s'ostina "a demander des explications sur ce qui n'avait que le défaut d'être trop clair", e che "l'osservar poco è.... il mezzo più sicuro per concludere molto": e come quando trovava la seconda Gerusalemme di Tasso "indubbiamente migliore della prima, sia riguardo ai versi, sia riguardo alle altre correzioni", e quando in una lettera al Bonghi sostiene che il Baretti "quell'Aristarco, che ebbe e ha ancora la riputazione di critico incontentabile, peccò piuttosto di troppa indulgenza"!!
Chiamava i ladri i più gran partigiani del diritto di proprietà, perchè... arrischiano la vita per ottenerla. Discorrendo col Torti del vino e dei suoi componenti conchiudeva: "IN FINE DEI CONTI, LA BASE DEL VINO È L'ACQUA".
La frequenza di questi paradossi o meglio dei bisticci che come vedremo formano non scarsa parte del suo contenuto letterario in prosa, è tanto più strana in lui che in alcune severe sentenze ne riprovava l'uso come perniciosissimo al giusto ragionamento (v. sotto).
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