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      È noto che già dall'esame delle liriche fu il Sergi(92) indotto a concludere di un esagerato predominio dell'elemento subbiettivo nelle sue opere poetiche e la povertà della rappresentazione della natura, che è quasi sempre notturna o al tramonto, e la monotonia dei sentimenti (nullità dell'universo della vita; tedio, giovinezza perduta, amore insoddisfatto), ne sono le prove.
      Volendo poi dimostrare che il dolore del Leopardi è puramente individuale, non universale, analizza i canti del dolore, concludendo, che il Leopardi attribuiva agli altri i dolori che egli provava per le peculiari sue condizioni, mentre l'arte si mantiene uniforme nei sentimenti e nelle immagini pallide e scure, il che non vuol dire che sia inefficace, perchè il lettore aggiunge facilmente ciò che manca alla poesia. Insomma, il carattere della lirica del Leopardi fu un prodotto della sua degenerazione fisica e psicologica con nessuna influenza delle idee del secolo, sicchè la infelicità del Leopardi, come uomo, fu causa della sua gloria come poeta. Ora chi non vede che così(93) il Sergi ci dimostrava quanto l'analisi antropologica possa giovare anche all'ermeneutica letteraria?
      Ora un sistematico nostro avversario, il PAOLO BELLEZZA (Della forma superlativa presso il Leopardi, "Giornale storico della Lett. Ital., XXXIII, pag. 73-105") scovava un altro carattere letterario, diremo degenerativo, nelle sue opere: quello di esagerare come il Tasso nella forma superlativa, sicchè annoveransi 251 superlativi in circa 55 pagine delle Prose, non tenendo calcolo dei frequentissimi superlativi di significato, come immenso, infinito, usati spesso per grande e numeroso.


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Nuovi studi sul Genio.
Parte I (da Colombo a Manzoni)
di Cesare Lombroso
Sandron Editore
1901 pagine 187

   





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