Quando qualcuno legge un libro per sollazzo, si ferma ai fatterelli che gli si adducono, senza sognare che vi sia sotto una conclusione. Meno ancora sognerà che l'autore pretenda da lui la conoscenza delle altre sue opere, senza le quali molte delle teorie addotte devono sembrare bislacchi paradossi; e così io avendo, in altro lavoro, con parecchie centinaia di esempi, mostrato la frequenza della pazzia nell'uomo di genio e le ragioni anzi per cui l'uno a vicenda si trasforma nell'altro, e gli speciali caratteri dei mattoidi, ommisi quelle dimostrazioni, dopo le quali poche frasi colte a volo nelle lettere di Cola da Rienzi, nell'Ezio II, bastavano per mostrare l'indole morbosa dei loro autori.
Un altro difetto capitale si aggiungeva in quel libro: la mancanza d'ogni misura nella diagnosi delle nostre piaghe. Il vero tutti dicono d'amarlo; ma ei dev'essere un vero anodino, che non ci guasti le digestioni; un vero debitamente filtrato attraverso lo staccio dei partiti e degli interessi.
Ti concederanno, per esempio, di maltrattare un Tizio, purchè abbi cura di non rivelare le magagne di Cajo: e giura, anzi, che quelle sieno glorie e non magagne, e lascia tranquilli i potenti, sian pure prepotenti, anzi... appunto se tali.
Qui trovo che i critici hanno proprio ragione. Che diavolo! Siamo in un'epoca di serafica contentatura, e tutti facciamo il bocchino d'oro, ed abbiamo convertito in turiboli le fiere alabarde: quando in tal'epoca uno, invece di miele e di incensi, va in busca di bastonate e di beffe, per dirci che noi confondiamo la calma con l'apatia; che non si provvede sul serio al delitto coll'estendere la giurìa; e all'ignoranza con dei brani di carta sotto forma di legge; e alla questione sociale, dimenticando l'agricola; e all'agricola dimenticando i pellagrosi; che non si progredisce ripristinando le preistoriche cremazioni, oh! costui non conosce il suo tempo.
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