Ma non finirono lì le inutili ipocrisie; egli probabilmente, messo in uzzolo da quella confessione dei patrizi, ordina (come accennai) che almeno una volta all'anno tutti i cittadini debbano confessarsi e comunicarsi, sotto pena di perdere un terzo dei beni, di cui la metà sarà data alla chiesa parrocchiale del reo e l'altra metà alla città. E i notai sono obbligati a fare la spia per ciascun testatore. Ora il Rienzi, in un poscritto a quella lettera (notisi, ripeto, questo ticchio dei poscritti in quasi tutte le sue lettere, che io ho trovato frequentissimo nei monomaniaci), dà notizia di questa sua nuova legge, aggiungendovi queste linee: "Ci parve decente che come un secondo Augusto cura l'incremento temporale della Repubblica, cerchi di favorirne, aumentarne il bene spirituale". Il che, a chi ci pensi, era un usurpare i più speciali diritti e doveri del pontefice, anche nel senso il più moderno della cosa, così come poi quando ordinava al clero delle speciali cerimonie e processioni ecclesiastiche di sua invenzione e dettava dei decreti contro i religiosi che non rientrassero in Roma. Questa, infatti, fu una delle precipue e giuste accuse che gli opposero a Praga e ad Avignone, e di cui non si scolpò che. . . . . . mentendo.
E quando la guerra contro Giovanni di Vico e il Ceccano conte di Fondi andava male, egli scrisse un'altra lettera (7 luglio 1347), in cui, mentre al Papa dà del signore e gli parla del suo popolo romano, dichiara come questa medesima Roma e questi medesimi popoli fecero giuramento nelle sue mani di mantenere il governo che egli stabilì, secondo il regolamento ispiratogli dallo Spirito Santo; e data la sua lettera dal primo anno della liberazione della Repubblica, e parla con una sicurezza nella sua ispirazione dello Spirito Santo, che non potrebbe comprendersi se non in un uomo di buona fede, e quindi in un allucinato.
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