Passavamo, or non è molto, all'estero, tra l'ammirazione ed il sospetto, non scevro di simpatia, per un popolo di piccoli Machiavelli; e siamo giunti, in breve ora, a destare le risa e la compassione, come Pulcinelli ipocriti che larvano la impotente e vigliacca grettezza colla vernice del sentimentale umanitarismo; e per quanto messi da parte e derisi, non mostriamo nemmeno volercene accorgere, non che vendicarci (22).
Non abbiamo, più, quasi un palmo di dominio sul mare che ci circonda; e mentre tutta Europa si slancia ad assicurarsi ampi sfoghi coloniali proporzionati ai bisogni, ci folleggiamo, come fanciulli, su una baia deserta che forse potrà costarci molto ma viceversa renderci nulla; e perdiamo di vista quei punti specialmente vicini alle coste nostre ed alle bocche dei grandi fiumi africani, che solo possono prometterci un avvenire.
Ai mali profondi che ci rodono gli organi più vitali, alla pellagra, all'alcoolismo, all'ignoranza, alla superstizione, alla regolamentata ingiustizia (23), alla indisciplina ed ignoranza scolastica, provvediamo con dimostrazioni teatrali, con frasi rettoriche e con formole curialesche, che lasciano il tempo che trovano, quando non riescono anche a guastarlo, illudendo d'avervi provveduto.
La società della capitale, retta, come nel Giappone, da un leale capo politico, da un religioso, e da una casta di retori che sostituisce quella dei Daimios, riassume in piccolo le piaghe di tutta Italia. Un clero impotente in teoria, ma, in fatto, influente ancora sui due estremi della scala sociale, la plebe ed il patriziato, in ispecie, ridotto suo mancipio; una casta avvocatesca che ha ereditato officialmente il potere, ma non il prestigio, d'amendue, e che di poco li supera d'ingegno e d'energia; la mediocrità dominante per tutto ed inconscia della propria inettezza, che anela dietro all'effetto, senza previsione nè preoccupazione del fine.
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