Una degli uomini e degli Dei è la stirpe, e d’una madre viviamo, diceva Pindaro (nella ode 6a delle Nemee): l’uomo aveva animata tutta la natura, e la natura rispondeva con mille voci all’uomo, il quale veramente le udiva e le sentiva, perchè erano le voci dell’anima sua. Quest’anima sì bene armonizzata di sentimento e di fantasia creò la religione e l’arte egualmente belle, come due gemine sorelle che vivono d’una madre, per modo che nella religione era tutta la vaghezza artistica, e nell’arte tutta la solennità religiosa. Però la religione ebbe per sacerdoti gli artisti; ed essa ispirò i poemi d’Omero e di Esiodo, le tragedie di Eschilo e di Sofocle, le odi di Pindaro e d’Anacreonte, il Giove di Fidia, la Venere ed il Cupido di Prassitele: e però il popol greco teneva come sacri i libri dei suoi poeti, li serbava a mente e li cantava, gl’intendeva e li credeva pienamente. I Romani per contrario tenevano sacri i libri sibillini e di Numa, scuri, segreti, letti solamente da pochi patrizi, e interpetrati secondo l’interesse dello stato. Questa credenza nel popol greco era dunque naturale e necessaria, perchè il bisogno di credere è potente in noi quanto quello di pensare: e doveva credere nei poeti, perchè quella religione, più di quante altre sono state al mondo, era una schietta poesia.
XIV. Se non che i savi sentivano che quelle liete creazioni se piacevano alla fantasia e movevano caramente gli affetti, non però contentavano la ragione, severa ed eterna avversaria della fede religiosa: quindi cercarono di trovare in quelle creazioni le verità razionali nascoste sotto il velo dell’allegoria.
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