(10) Questa teorica era l’estremo opposto della vita reale, pretendeva fare dell’uomo un puro ragionevole, ne sconosceva le passioni e l’immaginazione che sono tanta parte della vita, e non poteva discendere nella pratica e nella moltitudine. Epperò ella fu ultimo rifugio ai pochissimi onesti che avevano a schifo le lordure onde erano circondati; ed ai generosi, che perduta la libertà vera, si sottraevano dalla comune servitù ritirandosi in sè stessi, vivendo in una libertà astratta, e morendo da forti: ma fu ancora un’insegna sotto la quale si accolsero grandissimo numero d’ipocriti, di furbi e di ribaldi, che sogliono seguire sempre le opinioni più estreme per nascondersi più facilmente. Gli uomini di senno pratico che vedevano la volpe sotto il mantello del filosofo, e sapevano che nel mondo non si vive di astrazioni, non si lasciavano abbagliare dalle apparenze, e ridevano di una dottrina che non bastava ai buoni, e giovava tanto ai tristi. Questa dottrina fu comune tra i Romani più che le altre, perchè essi apprendendo filosofia quando erano già corrotti e quando questa era già declinante, non ebbero che due dottrine a seguitare: o l’Epicureismo o lo Stoicismo; due vie a tenere, o andando a seconda del secolo sprofondarsi nei piaceri ed aggradire ai potenti, o opponendosi al secolo vagheggiare una libertà astratta, e far guerra agli oppressori; o vivere corrottamente come Mecenate ed Orazio, ricchi e cari ai padroni, o morire incontaminati come Catone, Bruto e Trasea. Il principio dello Stoicismo si accordava al modo onde i Romani concepivano il diritto, alla loro indole severa, e porgeva certa utilità nella fierezza dei tempi: però fu professato dai più eminenti Romani, i quali si svenavano con lo stoico a lato che ragionava dell’immortalità dell’anima e della libertà.
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