La virtù dell’intelligenza non si volgeva a contemplare la verità, ma a disputare di argomenti sciocchi e vuoti, a vincere l’avversario, a sorprendere tutti con furberie divinatorie: e così si preparavano le dispute teologiche del secolo seguente. Se gli uomini giudiziosi avevano qualche ragione di non credere in quella filosofia, avevano tutte le ragioni del mondo a vituperare e sprezzare quei filosofi. Si può dire che il saper vero di quel secolo era negativo, era non altro che conoscere la falsità di quei prosuntuosi saccenti.
XXII. Le arti non erano in miglior punto. Nella generale dissoluzione del sapere, della religione, e dei costumi l’idea della bellezza si era disciolta anch’essa, non appariva più presente e viva, ma era lontana e morta: quindi non più creazioni, ma imitazioni delle opere antiche, sposizioni, critiche, comenti, vocabolari, precetti, ed altri lavori letterarii, non di arte. Ma possiamo noi dire veramente che bellezza non v’era affatto, e che nessuna anima ne sentiva neppure un raggio? Non è ella una rivelazione celeste che viene all’anima in ogni tempo, e in ogni luogo? Io dico che non v’era quella bellezza che nasce dall’armonia generale della vita, non v’era quel fiume di luce che viene continuo nell’anima dell’artista, e da questa si riflette e si spande intorno a lui: la vita era brutta, e la sua rappresentazione non poteva essere bella interamente. Io dico che vi poteva essere, e vi fu, qualche anima che nella bruttezza di quella vita scorgesse un lume di bellezza e lo rappresentasse: ma questo fu e sarà sempre privilegio di pochissimi; la moltitudine, benchè corrotta, poteva avere qualche sentimento, qualche pensiero non ignobile, ma breve come lampo, sì che l’arte appena poteva coglierlo e dargli una forma.
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