Il pensiero poetico sì vasto ed armonizzato in Omero, sì grave e solido nei tragici, così vario e lucente nei comici, viene a confondersi e minuzzarsi nell’epigramma, che piace sempre alla moltitudine, e non è luce, ma favilla poetica. Nella vita adunque non vi era bellezza, e però non vi furono artisti che la rappresentassero: quello che v’era, il male e l’errore, fu rappresentato nelle due forme possibili, o nudamente nella storia, o in opposizione del vero e del bene nella satira: la prima forma appartiene più ai Romani, la seconda più ai Greci, che non perdettero mai quel loro senso, e la memoria della bellezza onde erano impressi dentro.
La tirannide dei primi Cesari aveva cercato di spegnere sinanco la coscienza del genere umano: e quando dopo le guerre civili ed il regno di Domiziano apparve tempo men reo, e cessò quell’angoscia mortale che stringeva il cuore e opprimeva tutte le forze dell’anima, gli uomini si trovarono dimentichi di ogni buona arte, e, come Plinio afferma di sè stesso, si accorsero che non sapevano più parlare. Come poterono rilevare il capo e respirare, non seppero altro che narrare la storia dei dolori e delle vergogne sofferte. Cornelio Tacito la narrò da sennato romano e da consolo; Svetonio da retore; entrambi atterriti da quell’immenso cumulo di mali che essi avevano veduti o uditi, e che dopo tanti secoli fanno ancora spavento a chi li legge. Giovenale li dipinse nelle sue satire che sono acute strida di dolore, sfogo di un’anima generosa che si vede gettata a vivere fra tutte le sozzure e le abiezioni d’una età maladetta.
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