Delle due opere in cui si parla del Cristianesimo, il Filopatride non è suo certamente; ed il Peregrino a chi ben lo legge non parrà contenere alcuna beffa contro la religione novella. Narrando la vita di un furbo ribaldo che era stato ammesso nella Comunione dei Cristiani e poi scacciato, Luciano parla delle nuove credenze e dei nuovi costumi così di passaggio senza biasimo nè derisione, e chiama i Cristiani infelici, kakodaimones, quasi avendo pietà di loro che rinunziano al godimento della bellezza, unico bene del mondo, non curano le ricchezze, e per la loro credulità bonaria sono facili ad essere aggirati e spogliati da ogni astuto impostore. Dove ragionerò particolarmente del Peregrino sarà ad evidenza dimostrato che egli non attaccò nè il Cristianesimo nè i Cristiani. Forse gli uomini timorati vorrebbero che Luciano per bene dell’anima sua fosse stato cristiano: ma se egli fosse stato cristiano non avrebbe combattuto il paganesimo con l’arme potente del ridicolo, perchè il combatterlo sarebbe stato per lui un affare grave e serio: quindi se il ridicolo di Luciano fu utile a distruggere la credenza antica, si deve esser contenti che egli non ebbe la nuova; e riconoscere che la Provvidenza a lui diede l’uffizio di distruggere ciò che non doveva rimanere, e ad altri quello di edificare ciò che doveva durare per molti secoli. Egli adunque non uscì del mondo greco, e non intese ad altro che a deridere il politeismo dei Greci, rappresentandolo come un ammasso di antichi errori, e di poetiche invenzioni non più credute e spregiate dalla ragione, ma ancora piacenti alla immaginazione; e però egli vi scherza, si piace di maneggiarli in mille guise, e di giocare con essi per dilettare sè stesso e quelli che sentono come lui.
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