XLIII. Segue unaltra maniera di scritti, che non sono nč dicerie nč declamazioni, ed io non so come chiamarli. Primo tra questi scritti vari č una specie di lettera che Luciano scrive ad uno, che pare sia un valente avvocato, il quale gli diceva: Tu sei un Prometeo. Operetta elegante, ed assai importante, perchč ci dichiara il giudizio che facevano di lui i suoi contemporanei, e che faceva egli stesso delle opere sue. Che vuoi dire che io sono un Prometeo? che le opere mie sono di creta? Oh, lo so che le sono fragili e cosa da nulla. Che le son nuove, e che io il primo ho osato di unire insieme la commedia burlevole ed il dialogo grave? Ma questa unione ardita e nuova non basta per la bellezza, se manca larmonia e la simmetria. Or sono io riuscito ad unirle bene? Temo che gli uomini non singannino a lodare la sola novitą: temo che io mescolando due cose belle non ne abbia composta una brutta. Lo stesso concetto č nel Zeusi, il quale a me pare (e lascio che altri vi noti alcuni nei) che sia nato dalla stessa mente, ma espresso in diversa forma, e quando Luciano ancor giovane rispondeva agli ascoltatori che ammiravano la novitą delle sue dicerie. E questa lettera risponde a chi lodavalo dei dialoghi: perņ ella ti mostra un uomo di certo tempo, meno credente, dubitante anche di sč stesso, e scrivente ad un amico con maggiore correzione ed arte e facilitą.
XLIV. In questa Luciano parla de suoi scritti, nellApologia ragiona della sua vita. Aveva egli scritto un libro intorno a quei che stavano a mercede coi ricchi signori romani, e disonoravano la sapienza e sč stessi, senza cavare alcuna utilitą da quella servitł volontaria.
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