Gli fu fatta l’obbiezione: E tu non istai a mercede, che hai l’uffizio di Procuratore in Egitto? non sei servo anche tu? non ricade su di te il biasimo che hai scritto degli altri? Egli dunque scrive questa Apologia nella quale espone primamente con istudiata rettorica tutta l’obbiezione che gli si fa; poi dice le cose che forse alcuni suoi benevoli dicevano per iscusarlo: e queste accuse e queste scuse sono dette in certo modo beffardo, come da uno che si sente superiore alle une ed alle altre, ed ha buono in mano. In fine lascia questo modo, e dice sul serio e semplicemente la ragione vera: che un uffizio pubblico non disonora nè fa servo chi lo esercita; che esser Procuratore imperiale e governar l’Egitto è ben altra cosa che mettersi a servigio d’un signore, e stargli sempre a’ fianchi come un servitore. Egli poi non fa professione di sapiente, nè si briga di giungere a quell’alta cima di perfezione dove dicono stare la virtù: ebbe pubbliche provvisioni in Gallia, dove insegnò eloquenza e fece grossi guadagni, che maraviglia è se ora ha un uffizio pubblico? Questo dico a te, o amico mio, che mi sai, e che io stimo, e di cui desidero la stima: gli altri li lascio gracchiare. Questa Apologia è scritta con tanta sicurezza e superiorità, che ben ci vedi un uomo vecchio, conoscitore del mondo, ed alto locato, che sprezza le vane parole del volgo e ne parla con riso ad un amico, al quale brevemente dice la ragione vera, gli ricorda il tempo passato insieme, e finisce gettando un motto di disprezzo su chi non l’intende e vuole giudicarlo.
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