Ma non è dilettevole raccontar favole che non possono piacere se non al volgo, e sbracciarsi in adulazioni sperticate che fanno stomaco fino agli stessi adulati. La maggior parte oggi scrivono per utile proprio, sperando di cavar profitto dalle loro adulazioni: gente sciocca e fecciosa, guastano un nobile mestiere, e non pensano nè alla fama nè ai posteri. E qui Luciano in venti capitoli discorre piacevolissimamente di molte storie udite da lui, che narravano la guerra che Lucio Vero fece contro i Parti. La guerra, tra gli altri mali, ha prodotti ancora tanti sciocchi scrittori: chi vuol fare il grave, e guasta, storpia, copia il povero Tucidide, mutando solamente i nomi; e fa uscire la peste non del forziere, ma dell’Etiopia, e scendere in Egitto, e spandersi nelle terre del gran re: chi vuole imitare la semplicità di Erodoto, e dice balordaggini: senza conoscenza di luoghi, di armi, delle cagioni della guerra, dei fatti avvenuti e di quanto bisogna ad uno scrittore, scrivono le più sciagurate scempiaggini del mondo. Or questi venti capitoli pieni di sali, di frizzi, e di satira mordacissima, sono creduti dal Weise roba altrui, e rimpinzati come borra in quest’opera, la quale però gli è sospetta, e gli pare dubbio se sia o no tutta quanta di Luciano. Il quale giudizio nasce dal presupposto che questa opera sia didascalica, e voglia insegnare veramente come si deve scrivere la storia; e però non può contenere quei venti capitoli di piacevolezze. È questo un argomento didascalico sì, ma che passa per la mente di uno scrittore satirico, avvezzo a guardare nelle cose più il lato ridicolo che il serio, più il cattivo che il buono: quindi deve necessariamente avere molta parte, anzi la maggior parte di satira.
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