Cominciam dal Timone, tenuto giustamente per uno dei più belli, dei più eleganti, e finiti per forma. Ne diremo un poco a lungo, perchè se esso non sarà bene inteso, parrà discordante da tutte le altre opere di Luciano, un capriccio d’arte, senza ragione, e senza vera bellezza. Timone in poco tempo divenuto ricchissimo (neoploytos, cap. 7) avendo sparso e sparnazzato ogni cosa in beneficare ed arricchire moltissimi Ateniesi, abbandonato da tutti, e ridotto dall’ultima miseria a zappare la terra, si volta aspramente a Giove e gli dice un gran vitupero. L’ode Giove, e invece di sdegnarsi, si dispiace di aver trascurato un uomo dabbene e religioso: ma le tante faccende, e lo scompiglio che è nel mondo l’hanno impedito di guardare su l’Attica, dove le grandi chiacchiere dei filosofi non fanno udire le preghiere: e però gli è avvenuto di non badare a quest’uomo che non è tristo (ou phaulon onta, cap. 9). Intanto comanda a Mercurio di andare a prendere Pluto, che rechi un tesoro a Timone. Pluto non vuole andare, perchè è stato offeso da Timone, e sparpagliato pazzamente. Io ero amico di suo padre, ed egli mi ha scacciato di casa, mi ha gittato via come chi ha il fuoco in mano e lo butta: se vi torno, farà lo stesso. Oh Timone non farà più così, risponde Giove: la povertà lo ha corretto: or va’, che lo troverai più savio; e se tornerà alla prodigalità passata, tornerà povero subitamente. Va Pluto, che quantunque cieco e zoppo, ora non va a caso, perchè guidato dal veggente Mercurio, e va da Timone che da Giove è giudicato degno di arricchire, quantunque gli abbia detta quella gran villania.
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