— Voi vi tenete offesi da me: ascoltate le mie ragioni e giudicatemi: mi giudichi la Filosofia, giudicatemi voi stessi tutti quanti. Ma dov’è la vostra Filosofia? dove sta di casa? che io non lo so. — E neppur noi veramente: ma certo la troveremo in piazza. In piazza al parlare sennato la riconoscono, e le vanno incontro: ella calma quegl’irati, e con la Verità, la Giustizia, la Modestia, la Libertà, la Franchezza e la Pruova, li conduce tutti su la cittadella d’Atene per trattar questa causa. Mentre la Sacerdotessa apparecchia le seggiole sotto il portico del tempio di Pallade, Luciano fa la sua preghiera alla dea. Siedono giudici tutti, anche i filosofi, eccetto Diogene che fa l’accusa contro il retore. Costui, dice, lasciata la rettorica, si è messo a strapazzare la filosofia, e fa cenci dei filosofi, e il popolo appresso a lui ci deride. E facendo questo, ei si crede di filosofare, ed usa il nostro dialogo, ed ha persuaso Menippo ad abbandonar noi ed accordarsi con lui, e darci la baia: ed ultimamente ci ha venduti come servi, e me per due oboli. Luciano sotto nome di Parlachiaro si difende in una lunga diceria, nella quale sverta tutti i vizi, le imposture, e le ribalderie di quelli che svergognano la filosofia. La Verità fa testimonianza per lui: egli è assoluto a pieni voti, ed è dichiarato amico della Filosofia e dei filosofi veri. Ma la Virtù non si contenta, e vuole che ora Parlachiaro accusi gli avversari per farli punire. E qui pare che cominci la seconda parte. Il Sillogismo dall’alto della cittadella fa il bando, e chiama i filosofi a render conto di sè: vengono pochissimi.
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