Gli Dei frementi gridano: Fulmini e Tartaro. Giove risponde: La sentenza sarà eseguita, ma ora no, perchè sono giorni di festa: l’eseguiremo a primavera certamente. Il parlamento si scioglie, e Menippo è posato da Mercurio nel Ceramico di Atene. — Questo dialogo bellissimo, pieno delle più liete e festive invenzioni, di sali e di motti piccanti, vago di stile leggiero e spigliato, corretto in tutte le parti, è certamente di Luciano, secondo la mia opinione. I soliti dotti al solito dicono di no, senza darne una ragione. Luciano per loro è un mezzo filosofo, e veneratore della filosofia come sono essi, poco meno che un dottor laureato in utroque: però quando leggono un dialogo ardito che lacera i filosofi, e tira giù contro la filosofia senza riguardi, e ride, sentenziano tosto: Oh, non può esser suo; non è suo; è spurio; roba da scapestrato e da scolare. Se si volesse stare al giudizio di questi areopagiti giudicanti nel buio, le opere certamente di Luciano sarebbero meno di una dozzina. Ei credeva che la filosofia fosse una ciancia, e i filosofi degl’impostori. Buona o cattiva questa era l’opinione sua, e non bisogna dimenticarla nel leggere le sue opere.
LXXI. Ho ragione di così dire, perchè leggo che la Vendita ed il Pescatore dialoghi sì belli per arte sono dichiarati inetti e spurii, e poi l’Ermotimo, dialogo pregevole sì, ma non paragonabile a quei due, è tenuto come il capolavoro di Luciano, e lodato più di tutti: Scriptio vere Lucianea, ac genuina, ac plane egregia. Io non lo biasimo, non nego che abbia bellezze, ma dico che non è di quella bontà e perfezione che altri dice.
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