LXXX. Il Giove confutato contiene un concetto profondo, il gran problema della prescienza divina e della libertà umana, che tutte le religioni cercano di sciogliere. Un Cinico fa a Giove certe semplici dimande, e lo imbroglia, lo fa cadere in contraddizione, lo deride. Se le Parche prestabiliscono ogni cosa, e nessuno può mutare i loro destinati, a che si fanno preghiere e sacrifizi agli Dei, i quali non possono nulla, e sono soggetti alle Parche come gli uomini, anzi più degli uomini, perchè questi servono per il breve tempo della vita, ed essi sono eterni servitori e ministri di quelle? Se tutto è prestabilito ed ordinato, i vaticinii sono inutili o bugiardi, la provvidenza degli Dei non esiste, e l’uomo non deve avere nè colpa nè merito delle sue azioni, che non sono volontarie ma predestinate. Giove che si sente nei lacci, si dimena per uscirne, e non sa, e ricorre infine alle minacce, ed il Cinico lo sfida: Fulmina pure, percuotimi se è destinato che io debba essere percosso dal fulmine; io non te ne vorrò male, perchè so che non mi percuoti tu, ma il fato, e tu sei impotente. Questo dialogo è l’espressione più compiuta dello scetticismo religioso di Luciano, ed è fatto con molta schiettezza e molti lepori: ma non è altro che una semplice discussione, non un’opera d’arte. Lo scrittore sente la gravità del suo argomento, e lo tratta con certo rigore, che ammette pochi ornamenti, e rifiuta le invenzioni e la poesia. Il fato sì terribile agli antichi e scuro ed inevitabile è mostrato ridicolo, perchè è già conosciuto e vinto dalla ragione umana.
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