LXXXII. Anche legittimo figliuolo ed amabile è il Parlamento degli Dei, piacevole finzione, in cui si deride la sformata accozzaglia di Numi forestieri venuti ad abitare l’Olimpo de’ Greci. Giove chiama un parlamento come quelli che si facevano in Atene, e fa che il banditore dimandi chi degli Dei perfetti, a cui è permesso per legge, vuol parlamentare. Si leva Momo, e dice: che la gran folla de’ forestieri in cielo è ormai insopportabile, e vi ha fatto incarare il prezzo dell’ambrosia e del nèttare: che Bacco vi ha condotto una truppa di villani, di caprai, di brutti figuri, di bagasce, ed una di queste anche con un cagnolino: che non tutti gli Dei che si tengono per cittadini veraci, sono tali; e Giove stesso non si sa se è tale, perchè si tiene che sia sepolto in Creta: che Giove coi suoi amorazzi ha empiuto il cielo di bastardi, ed ogni dea ha voluto condurvi il suo ganzo, ed ogni dio il suo mignone. Gli dei dei Goti e degli Sciti si conoscono al vestito: ma che vuol dire che sono nell’Olimpo anche il toro di Menfi, e le scimmie, e i cani, e gl’ibi, e i becchi, e gli altri dii egiziani? E lasciando questi mistici egiziani, come si può sopportare che ogni impostore e furfante che muore, è fatto iddio, e dà oracoli, e gli si rizzano are, e gli si offrono corone? Infine, come se fossero pochi tutti questi, i filosofi hanno inventato certi vuoti nomi, come la Virtù, la Natura, il Fato, la Fortuna, e ne hanno fatto altri iddii. Però Momo propone un decreto, nel quale si ordina che chiunque si tiene Dio vero debba provare la sua divinità con buoni e validi documenti innanzi sette arbitri giurati, che saranno scelti tre dal vecchio consiglio di Saturno, e quattro dai Dodici; i quali esamineranno i titoli di ciascuno, la patria, il padre, la madre, ogni cosa: ai filosofi vietato di foggiar nomi, e ragionare di cose che non conoscono.
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