Se ne sarebbe riso. E se il concetto di questo dialogo non può appartenere a Luciano nè al suo tempo, la forma di esso è anche lontana da lui, e dal suo tempo. Quell’uscire a parlar degli Dei senza un perchè, e passarli a rassegna ad uno ad uno dicendone delle freddure o delle sozzure; quei tanti versi male infarciti e rimpinzati; quelle sozze corregge che mettono Borea su la Propontide, sono sciocchezze e sporchezze tali che non possono comportarsi in un’opera d’arte. E lo stile è così povero d’idee, ed intralciato, e rabbuiato; così frequente è il vezzo di non dir mai le cose con le parole proprie e semplici, ma andare cercando con lo spilletto le più strane; così torbida e fecciosa è la lingua, che tosto si vede lo scritto non essere opera di gentile ingegno. I Cristiani sennati non si scandalezzeranno a leggerlo, perchè il Cristianesimo ormai si ride delle satire che gli si facevano nella sua prima età, come noi fatti adulti ridiamo di qualche offesa fattaci nella fanciullezza da qualche scioccherello nostro coetaneo. Chi volesse saperne altro legga la bella dissertazione del Gesnero.
LXXXV. Le opere satiriche di forma discorsiva non sono più di tre: l’Alessandro, i Sacrifizi ed il Lutto.
Alessandro di Abonotechia, piccola città di Paflagonia presso Sinope, uomo di non volgare ingegno, fu un impostore famoso che acquistò molte ricchezze, per un tempio ed un oracolo che stabilì nella sua patria, al quale traeva gente da ogni parte, e finanche i più illustri di Roma. Di costui Luciano scrive la vita a consiglio di Celso suo strettissimo amico, filosofo epicureo, eloquente, ed avversario dei Cristiani.
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