Il fine che ebbero Celso nel consigliare, e Luciano nello scrivere quest’opera, fu di mostrare apertamente tutte le astuzie onde i furbi ingannavano i semplici, e di confermare sempre più gli uomini di senno nel disprezzo delle superstizioni e delle ciarlatanerie. I pochi savi che si affaticavano ad insegnare e diffondere la verità, dovevano sentire un nobile sdegno contro di quelli che si affaticavano a diffondere l’errore nel popolo, per trarne profitto a proprio vantaggio. Chi sostiene l’errore perchè ne è persuaso, e senza fine di utile particolare, può essere sciocco, non è tristo; ma chi abusa della credulità della gente grossa, e fa bottega del suo ingegno, è un ribaldo che merita davvero di essere dato a sbranare alle scimmie ed alle volpi. In questo scritto Luciano nomina sè stesso, narra come egli aspreggiò ed offese Alessandro, come lo tentò con varie dimande, come gli morse la mano datagli a baciare, e poi il pericolo che corse per questo fatto: onde sia per tutto questo racconto, che per nessuna ragione si può credere finto, sia ancora per la materia dello scritto, e la forma, e la lingua, io non dubito che sia genuino. Luciano compose questo scritto quando era già provetto negli anni, e dopo la morte di Marco Aurelio, perchè dice che Alessandro mandò un suo oracolo in Roma mentre ardeva la guerra di Germania, e il divo Marco era alle mani coi Quadi e coi Marcomanni. Or l’epiteto divo si dava solamente agl’imperatori già morti: ed alla morte di Marco era Luciano, se non vecchio, molto attempato.
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