Non eri per dire anche questo? Ma con me non è mestieri di tanto: fa conto di avermelo già detto, ed io sono già pronto ad applaudirti a gran voci. Ma se indugerai più, mi verrai in uggia, e farò una solenne fischiata.
Luciano. Cotesto sì volevo dirtelo, e un’altra cosa ancora: che io non ti riferirò tutto con quell’ordine e in quel modo che egli diceva; chè ciò mi sarebbe impossibile. Nè gli attribuirò parole mie, per non parer simile a quegli altri istrioni, che spesso si mettono la maschera di Agamennone, di Creonte, o di Ercole, vesti sfoggiate d’oro, hanno una guardatura terribile, aprono tanto di bocca, e cacciano una vociolina di femmina più sottile di quella di Ecuba o di Polissena. Perchè dunque non sia ripreso anch’io che mi metto una maschera più grande del capo, e disonoro la veste che prendo, a faccia scoperta voglio ragionare con te; e così, se cado, non istorpio l’eroe che rappresento.
L’Amico. Oh, costui oggi non la finirà con tante filastrocche di scena e di tragedia.
Luciano. Ora finisco, e torno a bomba. Ei cominciò il discorso da una lode alla Grecia, specialmente agli Ateniesi, perchè, educati nella filosofia e nella parsimonia, guardano di mal occhio quel cittadino o forestiere che si sforza d’introdurre il lusso tra loro: anzi se vi capita qualcuno cosiffatto, a poco a poco te lo correggono, lo ammaestrano, lo riducono a vivere alla semplice. E ricordava uno di questi ricconi, che venuto in Atene con grande sfarzo, lungo codazzo di servi, tante vesti ed oro, si pensava di fare gran colpo in tutti gli Ateniesi, ed esser riguardato come felicissimo.
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