L’Amico. Oh! che sagge, e mirabili, e divine cose tu m’hai dette, o amico mio. Senza accorgertene m’hai riempito veramente d’ambrosia e di loto. Mentre tu parlavi, l’anima mia era commossa; ed ora che hai finito sento certo dolore, e, come tu dici, mi sento ferito. Non maravigliartene: tu sai che chi è morso da un cane arrabbiato, se morde un altro, gli dà la stessa rabbia e lo stesso furore; chè il veleno trapassa col morso, e il male cresce, e rapidamente si comunica il furore.
Luciano. Dunque anche tu mi confessi che l’ami?
L’Amico. Sì: e ti prego di trovare un rimedio per tutti e due.
Luciano. Bisogna fare il rimedio di Telefo.(35)
L’Amico. E qual è?
Luciano. Andare da chi ci ha feriti, e pregarlo che ci risani.
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IV.
Qui segue il Giudizio delle Vocali, che non è tradotto. Vedine le ragioni, ed un sunto nel Discorso proemiale.
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V.
TIMONE,
oIL MISANTROPO.
Timone, Giove, Mercurio, Pluto, la Povertà, Gnatonide, Filiade, Demea, Trasiclete.
Timone. O Giove, signore dell’amistà, e protettor dello straniero, e re dei banchetti, e ospitale, e fulminatore, o vendicator dei giuri, e adunator di nembi, e tonante, e come altro ti chiamano gli intronati poeti, massime quando intoppano a compiere il verso, e tu allora, con uno de’ tanti nomi che prendi, puntelli il verso cadente e ne riempi la vuota armonia; dove stanno gli accesi lampi, i fragorosi tuoni, e l’ardente, la rovente, la terribile folgore? Già tutti sanno che le son vecchie ciance, fumo poetico, vuoto rumor di parole. Quel tuo fulmine sì celebre, che colpiva sì lontano, e che avevi sempre tra le mani, non so come, s’è spento; è freddo, e non serba neppure una favilluzza di sdegno contro i ribaldi.
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