Almeno parmi di averci un bene, che non vedo più tanti che godono e non lo meritano: ed io non mi addoloro. Orsù, o figliuolo di Saturno e di Rea, risvégliati una volta da cotesto sonno profondo, chè hai dormito più di Epimenide,(37) desta la folgore, raccendila sull’Oeta, brucia mezzo mondo, mostra una furia degna di Giove giovane e gagliardo; se no, è vero quello che i Cretesi contano di te e della tua tomba.(38)
Giove. Chi è colui, o Mercurio, che ha gridato così dall’Attica, presso l’Imetto, laggiù in quella valle, ed è tutto lordo, e squallido, e impellicciato? Sta curvo, e parmi che zappi. Sfringuella bene ed ardito. Certo è un filosofo, che nessuno ardiria parlar sì empiamente di noi.
Mercurio. Che dici, o padre? Non riconosci Timone di Echecratide, quel di Colitta? Questi è colui che tante volte ci ha offerte le migliori vittime, le ecatombe intere, quel gran riccone, in casa di cui con tanta magnificenza celebravamo le tue feste.
Giove. Come è mutato! quel bello, quel ricco, con tanti amici attorno? E come è ridotto così povero e sparuto? Per campare cava la terra, e mena una zappa tanto pesante!
Mercurio. Dice egli che la sua bontà, la sua filantropia, l’aver compassione a tutti gli sfortunati l’ha perduto: ma il vero è che è stata la sua sciocchezza, la sua leggerezza, e il suo poco conoscere nella scelta degli amici, e non capire che ei faceva bene a corvi ed a lupi. Questi avoltoi gli mangiavano il fegato, ed il misero li teneva amici sviscerati che glielo facevan per bene, e quei scialavano.
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