E poi che l’ebbero spolpato bene, e rosegli le ossa, e smidollatele tutte, gli voltaron le spalle, lasciandolo secco e tronco dalle radici, non lo conobbero più, non lo guardarono: pensa tu se lo soccorsero e gli rendettero un po’ del bene che ne avevano avuto. E però presa la zappa ed il pelliccione, come vedi, e lasciata la città per vergogna, s’è messo a garzone con un lavoratore. La sventura lo ha invelenito, ed egli esce de’ gangheri quando gli arricchiti da lui gli passano innanzi tutti, tronfi, e senza ricordarsi che ei si chiama Timone.
Giove. Dovevo pensare un po’ a lui: ha ragione di dolersi. Saria un’azione da quei sozzi adulatori dimenticarmi d’un uomo che ha bruciato su i nostri altari tante cosce di tori e di capre grassissime: e la soavità di quell’odore l’ho ancora nel naso. Ma le faccende grandi, e il gran fracasso che fanno gli spergiuratori, i ribaldi, i ladroni, ed ancora il timore dei sacrileghi, che son tanti, e non giungo a contenerli, e non mi lasciano chiudere gli occhi un tantino, da molto tempo m’hanno impedito di gittare uno sguardo su l’Attica, massimamente da che vi corre l’andazzo del filosofare e contendere di parole. Bisticci, strilli, rombazzo: come posso udir preghiere? o debbo turarmi le orecchie, e starmene, o farmi assordare da mille voci che gridano tutte insieme virtù, immortalità, e non so che altre corbellerie. Per cagion loro questo uomo che non è tristo m’è uscito di mente. Ma, o Mercurio, va da Pluto, e tosto menalo a lui. Pluto conduca anche il Tesoro seco, ed amendue rimangano in casa di Timone, e non ne escano, ancorchè egli per la sua dabbenaggine torni a scacciarli con la mazza.
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